Canto l’anima del sogno

maria frisina - canto l'anima del sogno

Chi ama s’incanta di marosi / che infuriano le viscere, / vacilla la ragione”.

Incanto, l’incanto di un sogno, ma non proibito; sottilmente insidioso forse, ma consapevolmente umano! Umano fuori ogni dubbio rincorrere “la ragione dei sentimenti”, le “vere passioni”, fino a pervenire ad una dimensione assolutizzante e verosimilmente ieratica, “alla santità dell’eros”. 

Maria Frisina, novella sacerdotessa mamertina del sentimento, “battezza i cuori” con la stessa consapevolezza, lo stesso “visibilio”, gli stessi “sudori”, la stessa intensità emotiva di cui il cuore stesso, la vita “linfa cosmica del mondo” divengono singolarità per eccellenza. Scansionando singolarità per singolarità, abisso endo- corde o stillicidio di lacrime vere, aneliti e pensieri o sospiri e palpiti guizzanti, ancora sangue e vita perveniamo ai versi di Maria, versi partoriti dalla loro unione perfetta che chiamasi Amore. D’altronde, questa nostra asserzione non assume certo la forma di una captatio benevolentiae: ce la consacra lo stesso poeta portoghese Fernando Pessoa, il quale verseggiò “L’amore è un frammento mortale d’immortalità!

Né l’indicazione di Maria Frisina è fine a se stessa, ma viene suggellata nel sottotitolo. È proprio qui, ab imis, che balena la primordiale riflessione ontologica sul suo versificare, sul “Poema d’amore”. Nella letteratura italiana, altresì in quell’universo di lettere, romanzi e rime che caratterizzano copiosamente gran parte della letteratura straniera, mi pare di non aver incontrato una composizione unitaria – un poema appunto – che canti l’amore nella totalità se non cesellinato in una più ampia cornice cavalleresca, epico – storica, mitologica. Forse, non accostabile al canto interiore di Maria, un germe lo si può rinvenire nell’ “Orfeo e Euridice” del poeta scozzese quattrocentesco Robert Henryson; ma anche in quest’ultimo, il retaggio mitologico ha il sopravvento sull’ IO poetante. Il Poema d’ amore di Maria Frisina, dunque, è espressione genuina della più alta originalità poetica. 

Ciò considerato, il suo tumulto amoroso rimane pur sempre un poema e non solo giacché la stessa lo rende noto da sottotitolo: è la gestazione stessa della silloge, il vortice di sensazioni e sentimenti che la incorporano a considerare l’ ultima produzione di Maria Frisina un epos d’amore, il vagabondaggio esemplare di un’anima pellegrina che, “in perenne naufragio”, intenta a cantare con il “corpo vivo…la sacrosanta verità”  giunge, mediante un itinerario escatologico che – mi sia consentito il termine- spettacolarizza e trasforma in “carne” l’esaltazione stessa del bisogno di amore viscerale ed incorrotto “in cui il grottesco / si tinge di sublime”. Sarà così che, risalendo “a sbiadirsi di costellazioni”, spingendosi “a propulsione / verso il cuore”, il poema della Nostra diviene epopea soggettivizzata, coscienza riconquistata passo dopo passo da un’impresa eroica sovrumana, insaziabile rivalsa di risentire fame di vita, fame di amore. 

Il cammino referenziale alla riscoperta della “incorruttibile materia / di passione”, dell’amore “euforia di passioni” si snoda nei versi su due bisettrici focali ed al contempo modali – nella fattispecie di un modus amandi – direzioni mai contrapposte, nel punto massimo d’incontro piuttosto giustapposte. Si avrà, pertanto, una soggettivizzazione del sentimento, dirimente interiorizzazione che si trasforma in “compiacenza delle mie ferite”. “Compiacenza” che in “Vuoto d’Amore” la compianta poetessa Alda Merini designava follia: “Io sono folle, folle / folle di amore per te. / Io gemo di tenerezza / perché sono folle, folle, perché ti ho perduto / … ero malata di tua perdizione”. È la stessa lucida comprensione dell’“intimità d’incanto” di Maria. L’intimità del verso è l’ennesimo piano connotativo del mistero di amare. Il mistero del XVII sonetto di Pablo Neruda: “Ti amo come si amano certe cose oscure, / segretamente, tra l’ombra e l’anima”. Maria Frisina ha la forza dell’inferenza della Merini e del Neruda, ne eguaglia le orme ancestrali!  

La seconda dimensionalità focale è conseguente: solennizza l’oggettivizzazione del sentimento, tracciando il proprio campo d’azione nella universalità, nella condivisione umana del sentimento: “Quando Amore chiama / si fa deserto intorno”. 

La concitazione inquieta che soggettivizza il sentimento trova il suo culmine naturale nella penultima lirica del corpus, caratterizzati questi ultimi versi, a differenza degli altri, da titolatura: è proprio in “Così” che si esplica dirompente e disarmante al contempo il modus amandi proprio della Nostra: “Così io t’amo / con l’inquietudine/ di chi sa / che tutto scorre”… Ne troviamo rafforzamento di concettualità ancora in un’altra lirica: “Sento di amare in modo delirante. / Recisa / la magnifica fioritura dei sogni / piango/ di un pianto inabitabile./ Forse l’evocazione / di archi d’estasi / può scaldare il cuore. / Vincere così lo spasimo … / Diamo fuochi di passioni/ alla vita”.

E’ un dolce delirio quello di Maria Frisina, che abbraccia, dapprima con arrendevolezza e apparente rispetto cinico, la soglia beffarda della più intima solitudine, emarginazione  volontaria dettata da un senso critico di abbandono: “Vita chiusa bruscamente / con pietra sepolcrale. / Travolta, arenata, sommersa. / Illogica sconfitta / senza rivolta, / senza rivalsa. / Babilonia / di un equilibrio labile.” … Ed ancora: “M’invade tristezza mortale / compiacenza morbosa / dal vuoto affollato / da giravolte di buio”. La amplifica, partecipazione del suo stesso sentire, di una necessaria tappa ascetica comune ad ogni singolo essere umano: “Ognuno in solitudine vaga / nel carnevale d’orgoglio / con la sua sofferenza. / L’uomo si stagna / di tristezza”. Maria si aggroviglia così nel tedio, si annienta per poi “sfidare la solitudine”, uscirne con “una soavità nuova”, “brama di tenerezza” che la sua stessa indole femminea la fa evadere “dalla prigione di spine”. Rinascita sì, ma dopo esser scesa “nel pozzo della morte”, “oltre il pantano del mondo”: una palingenesi risolutiva! E la tenerezza la realità di una purezza innata della sua poesia, del suo essere poetessa. 

Nella dialettica tra eros e thanatos, tra l’amplesso irriverente di Amore che la invita a rivivere e il limbo accecato della morte che la poesia della Nostra raggiunge l’apice del sentimento più maturato. Non è amore per la tomba e quanto ne contiene, dal corpo esanime di un marito prematuramente scomparso ai ricordi del loro viversi, no! È invocare supplice la forza di potersi ancora una volta “riconcedere alla dolce primavera” dei sensi, al brivido di bellezza che quel sentimento, Amore, rivuole suo, perfino “con febbre sulla bocca”. Solo così, riappropriandosi della “ebbrezza della vita”, fenice che riemerge dalle proprie ceneri cosparse di dolore, con la mente che non più “annaspa / per sentieri / di prati e dirupi”, ridefinendo “il limite del vero”, Ella dice: “Mi avvolgo di stupore: / segreta misura /della mia esistenza”. Inaugura una “Poetica dell’Altrove”!

Maria, sussurrando novelle parole d’amore, comprende nella sua “vita di Poesia”, non più atrofizzata dall’ oscurità del nulla che prima la ambiva, che “La morte insegna / a frugare il cielo”. L’anima “lasciata in abbandono” cede il passo ad una nuova “trasfigurazione incorrotta di donna”, un rievocato “sapore della vita” che era stipato negli anfratti combattuti del cuore, nel qual solo era annidato lo stesso movimento di chi ama senza misura ascoltando “la vita / oltre il reale / fatta di favole vere / e verità di misteri”. È la definizione del suo personale viaggio dantesco!

Le metafore solitarie del cuore compunto si riappropriano della bellezza primordiale dell’ amore, attendendo “gentile il mio sole” che “brucerà con rabbia / il passato”, con “ignoto delirio” ed “in balia di un forte impeto / di grazia” aver voglia di “ritornare tra la gente”, abbandonandosi alla luce lunare, trasumanata nella stessa Poetessa dell’ Amore.  E di Amore ancora vivere, “rivolta selvaggia / di tutto il mio essere”, intingolo di liberazione, dolore travolto dall’ Amore.  Amore che ha sembianze di luna e volto della stessa Poetessa! Amore che sa di Poesia e dei versi di una “mietitrice di parole” mai orfane della loro purezza, poiché questa stessa purezza appartiene alla nobiltà d’animo della stessa Poetessa, che olezza quale germoglio bianco vestito su una radura scura di passioni societarie deviate!

Maria Frisina defeziona così l’intimità racchiusa nel suo animo, discopre la sua di anima, affaticata dalla contingenza del realmente vissuto e la fa vibrare in versi soavi dettati dalla potenza di Amore, accarezzandola dopo il supremo sacrificio che l’ha spinta fin alla negazione del suo poter essere amante. La deflagrazione della sua stessa prerogativa innata ad amare e il raggiunto nuovo status è consegnare la propria apologia del sentimento ai novelli amanti, riconsegnando anche a se stessa l’amplesso caldo di Amore, che la vivifica come “donna e madre…ape regina…amante perfetta”.

By Rocco Polistena

Ideatore e sostenitore del Correntismo, ricercatore instancabile dell'Umanità pura e bella, caparbio "incantato" dalla Cultura quale bisettrice unica di stile di vita, si definisce "un Uomo qualunque" alla ricerca dell'Essenzialita dell'Essere. Divulgatore per passione, aspirante giurista, "agricolo" per trasmissione dagli avi, presiede l'Associazione Culturale Roubiklon nella sua Lubrichi (RC). Ha scritto, editandole, diverse sillogi poetiche, riservando egli alla Poesia la causa primaria del suo "sentire". Ritiene il dialogo costruzione autentica di una societas nuova.

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